Commento sulla mostra personale “ABBANDONI” di Carlo Martini, Bassano del Grappa

di Emanuela Pasin

Gli esseri umani tendono a dimenticare, ma ogni arte è figlia di Mnemosine e riporta la memoria, rievoca l’anima delle cose. Molte cose nella vita ci passano accanto, le vediamo ogni giorno, le conosciamo, ma preferiamo abbandonarle in una sorta di oblio dell’anima, forse per allontanarne il dolore che ci procurano, forse per scongiurarle, forse perché ci costringono a darci da fare quando non abbiamo alcuna idea di che cosa fare. 

Quest’abbandono sistematico di cose importanti appartiene purtroppo alla nostra quotidianità, spesso riguarda lo stato dei nostri affetti familiari, del nostro amore di coppia, dei nostri problemi con il lavoro, con nostra madre o nostro padre, con la nostra mancanza di felicità: anche se rimaniamo a fare l’indispensabile, ce ne distacchiamo, non ci prendiamo veramente cura di loro.

Cose importanti trascurate, quindi, come oggetti preziosi abbandonati, che si deflazionano, semplicemente perché hanno l’autorevolezza insopportabile di metterci di fronte alla nostra impotenza, alla nostra incapacità di agire e di amare di più.

C’è una differenza minima tra un luogo trascurato e un luogo abbandonato: semplicemente uno stato precede immediatamente l’altro.

La grande arte ha il potere di farci cogliere il fascino e la potenza di questi abbandoni, si impone con forza, ci grida di svegliarci dal torpore dell’oblio dell’anima, ci invita ad uscire dall’apatia, ci riabilita la memoria, ci insegna la strada dell’attenzione per le cose del mondo, per la gente, per i nostri oggetti, per la nostra terra, per i luoghi, per piccole cose importanti alle quali siamo ormai anestetizzati, a cui invece dovremmo riversare il nettare del nostro cuore.

Martini, con la sua mostra, ci sveglia da quest’apatia in cui siamo caduti senza saperlo, all’improvviso vediamo dipinte le nostre fabbriche che in questi anni sono state chiuse, vediamo il loro stato di abbandono, vediamo la loro razionalità lineare, la sicurezza che ci infondevano, la freddezza della fatica e la noia di tutti i giorni passati lì dentro, d’improvviso si apre un varco, proviamo sgomento, ci sentiamo deprivati di luoghi che un tempo sono stati brulicanti di uomini, di idee, di macchine, di amore per ciò che si produceva, di affetto e di mutuo aiuto tra esseri umani, lotte sindacali, rispetto, sudore, sogni e desideri. In un attimo ripetuto ci prende una sorta di tenerezza per dei luoghi che hanno ospitato le nostre speranze e ora ci sembrano dei fedeli cani abbandonati dopo aver seguito e amato per anni il proprio padrone.

Martini ci impone la loro visione con una cura e una tenerezza che si rivolge solo alle immagini sacre, ci mostra con realismo un problema sociale enorme, di cui siamo coscienti ma non consapevoli, in una terra, come la nostra, che sembrava avesse un modello economico inossidabile, le fabbriche da anni hanno cominciato a chiudere creando grandi sofferenze, grandi sconvolgimenti nelle famiglie, nel tessuto sociale e molti suicidi. Di fronte al problema, che conosciamo, non sappiamo cosa fare e rigettiamo questa coscienza nell’oblio, per proteggerci dal dolore e forse anche dalla rabbia. L’artista invece a differenza di noi comuni mortali, con il suo punto di vista e con il suo talento, può elevare lo status di un oggetto, di un luogo, di una sofferenza collettiva e farcelo portare ad un livello che chiamiamo consapevolezza.

Se sei cosciente, sai qual è il problema, lo guardi distaccato ma non ti muovi, di solito lo eviti; se sei consapevole le emozioni si muovono dentro di te, la tristezza, la rabbia, il bisogno, l’amore, la vita spinge perché tu faccia qualcosa, perché tu viva veramente. La consapevolezza è una visione, un’intensa emozione che ha in grembo il cambiamento, smuove le energie che abbiamo abbandonato dentro i meandri nel nostro oblio e fa nascere di nuovo il “fare”, anzi un “fare nuovo” che porta in sé la nostra creatività, la nostra dignità, l’amore per la nostra terra, per i nostri affetti e per i luoghi che ci hanno permesso di sognare e che ora, abbandonati, ci permettono di cambiare.

Emanuela Pasin

Marzo 2015