Non di differenti anime ma di diversi approcci al concepire si struttura l’estetica di Carlo Martini.

Il paesaggio industriale, ad esempio, illustra l’ingegno dell’uomo, la cui architettura è nel dettaglio, a suo modo preponderante, che ne costituisce il reticolo su cui si esprime un tutto di rara potenza, un’intuizione di bellezza, derivante dal lambiccarsi del pensiero.

L’interferenza, invece, è essenziale. Essa asciuga, elimina il superfluo e l’orpello in favore di una visione lineare, nella quale la bellezza non sta nella definizione dell’immagine.

In essa si ritrovano la tracce di un passaggio umano ma non dell’uomo, se non in minime figure infilate tra le differenti proiezioni, in un tempo annichilito, e perciò simile allo spazio, che può testimoniarne una presenza passata, presentare una contemporaneità di momenti, definire una convivenza d’epoche nelle quali l’uomo viene congelato e rappresentato non come protagonista ma come comprimario della storia.

Ed è un occhio, alla fine, il terzo elemento di un trittico di proposte.

Un elemento necessario per triangolare la posizione del pensiero di Carlo, dandoci la chiave con la quale intuire il luogo in cui l’artista si nasconde.

Ciascuna proposta di Martini è un’osservazione, in fondo, e il fulcro della visione non è nell’opera in sé ma poco distante, nello sguardo di chi osserva. L’occhio ci guarda.

O forse siamo noi che scrutiamo attraverso questo, noi che riusciamo, con un artifizio, a diventare testimoni della poetica dell’artista, dalla quale egli trae forza ed esperienza.

Paolo Gidoni

Ottobre 2022